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Contro il piagnisteo

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Pubblichiamo un articolo di Mariarosa Mancuso uscito sul Foglio ringraziando la testata e l’autrice. (Immagine: una scena di Hugo Cabret di Martin Scorsese.)

di Mariarosa Mancuso

“Era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. A farla breve, gli anni erano così simili ai nostri che chi li conosceva profondamente sosteneva che, in bene o in male, se ne potesse parlare soltanto al superlativo” (Charles Dickens, “Le due città”).

E bravo Charles Dickens, che prende in giro gli anni suoi e gli anni a venire. Oddio, gli anni non è che portino colpe, sono i commentatori che tracciano la linea e la difendono consumandosi le dita sulla tastiera. L’attacco di “Le due città” torna in mente quando leggiamo, a distanza di pochi giorni, due elenchini che paragonano il lussuoso 1913 al mesto 2013. L’anno mirabile che vantò la “Recherche” di Marcel Proust, “La sagra della primavera” di Igor Stravinskij, il Sigmund Freud di “Totem e tabù”. Il nostro anno orribile: i radar non hanno rilevato nulla che si possa paragonare a quei capolavori. E già affilano le armi della critica preventiva: nel 1914 c’era Charlie Chaplin al suo debutto, c’era James Joyce che pubblicava “Gente di Dublino”, e noi saremo ancora qui a dibattere se l’ingresso in classifica di Fabio Volo annunci o no la fine della letteratura.

A parte il fatto che i campioni dell’avanguardia non furono applauditi né celebrati al loro apparire quindi gli equivalenti andrebbero trovati tra libri, film e altri manufatti che attualmente vengono disprezzati, toccherà ai posteri riaggiustare la scala di valori – il piagnisteo culturale versione 2.0 irrita quanto il precedente. (L’originale, inchiodato alle sue reponsabilità da Robert Hughes, riguardava le minoranze oppresse e il loro contributo alla cultura: scarso ma molto pompato perché sennò è discriminazione).

Il piagnisteo sulla fine della cultura irrita, e fa rispolverare la legge di Theodore Sturgeon, scrittore di fantascienza anni 50. Quando attaccavano il suo genere prediletto facendogli notare che per il 90 per cento erano romanzi-spazzatura, spiegò che “il 90 per cento di ogni cosa è spazzatura” (ora “Cristalli sognanti” è nel catalogo Adelphi). Probabilmente si era tenuto stretto, perfino per i tempi in cui la cultura era una faccenda più elitaria di quanto non fosse nel 1958: dietro un Dickens, decine di scrittrici, note come “regine delle biblioteche circolanti”, intrattenevano i lettori senza che oggi ne sia rimasta traccia.

Il 90 per cento di tutto è spazzatura, facciamocene una ragione. Vale per internet, per l’accademia, per la pletora di cuochi che teorizzano l’impiattamento come una delle belle arti. Vale per i romanzi e per i film, che rispetto ai primi hanno una barriera d’entrata più alta. Ancora servono parecchi soldi, pochissimi pionieri hanno preso sul serio le possibilità garantite dalle telecamerine digitali che abbattono i costi di produzione facendo trionfare le idee. A patto che le idee ci siano, fanno notare due grintosi ultrasettantenni: Werner Herzog, che per girare il suo primo film rubò una macchina da presa alla scuola di cinema di Monaco, e Roman Polanski. Ancora meno sono i millennial che spingono la loro fede nei social network, nei blog e nell’online al punto da non sognare la propria firma su un giornale di carta, o su una bella copertina rigida (con risvolto suggerito dallo scrittore medesimo). Dietro ogni libro autopubblicato, c’è una preghiera rivolta a un editore.

Sperare nel 10 per cento è più che sufficiente per vivere felici e curiosi, con libri da leggere e film o serie tv da vedere. Di più comunque non riusciremmo a smaltire. Sull’ultimo numero del New Yorker, un commento di Adam Gopnik intitolato “Due navi” ricorda che il Titanic aveva una nave gemella, l’Olympic, che non naufragò cozzando contro l’iceberg e approdò tranquilla nel porto di New York. Navigò per i successivi vent’anni, trasportò le truppe durante la Seconda guerra mondiale, era tanto affidabile che fu ribattezzata “Old Reliable”, vale a dire Vecchio Baluardo. Nessuno a Hollywood ci farà mai un musical, aggiunge, perché le disgrazie attirano e perché i falsi positivi non affliggono soltanto la diagnostica medica.

Affliggono anche la cultura, sicuro. Soprattutto in un paese immobile come l’Italia, dove possiamo scegliere tra tanti di quei piagnistei generazionali che la metà basterebbero per farsi spernacchiare anche da conoscitori della natura umana meno raffinati di Charles Dickens. “Un paese di giovanotti abulici stesi sul divano con le cuffiette”, garantisce Michele Serra in “Gli sdraiati”, gran successo di pubblico e di critica. Il figliolo dovrebbe far causa per ottenere metà dei diritti, come fece il genitore di John le Carré: “Ti ho fatto passare un’infanzia difficile, sei diventato ricco raccontandola nei romanzi, ora voglio la percentuale”. Un paese dove i bambini guardano Peppa Pig e gli adolescenti adorano Violetta, personaggi pervenuti ai commentatori adulti durante le trascorse vacanze natalizie.

Se il 2013 appena finito e il 2014 appena cominciato saranno all’altezza dei corrispettivi di un secolo fa è presto per dirlo. Pare comunque inutile fasciarsi la testa. Non è questione di ottimismo. Sorregge la statistica (il mondo è sopravvissuto finora ai profeti di sventura, facile che ce la faccia anche quest’altra volta) e sorregge l’esperienza. Venti anni fa nessuno avrebbe scommesso un solo dollaro sul clamoroso rinnovamento, oltre che sul successo popolare e culturale, delle serie televisive. All’origine – bisogna ricordarlo – la diversificazione del mercato: la HBO voleva abbonamenti alla tv via cavo, decise di puntare sulla qualità della scrittura. Sul pubblico adulto. Sulla sperimentazione che non fa fuggire gli spettatori, anzi li attrae e li conquista.

Il cinema sembrava moribondo sotto i colpi della nuova televisione, paragonabile a un feuilleton ottocentesco per ampiezza e impatto con il pubblico. Si è risollevato con film come “Gravity” di Alfonso Cuarón. La space opera ripropone il brivido realistico provato dagli spettatori che videro il treno sbuffante vapore dei Lumière diretto contro di loro. E nello stesso tempo è costruita come i filmini di Georges Méliès, celebrato da Martin Scorsese in “Hugo”: le più moderne tecnologie applicate a una storia antichissima, il ritorno a casa dopo una catastrofe. Se pensiamo all’immenso battage, pubblicitario e critico, che accompagnò nel 2009 l’uscita di “Avatar” diretto da James Cameron, non possiamo che rallegrarci. Si va avanti e non indietro, qualche anno ancora e gli omoni blu con le orecchie a punta saranno nell’archivio delle stranezze, non dei film che hanno cambiato la storia del cinema.

La legge del 90 per cento vale anche per le magnifiche sorti e progressive dei nuovi media, che ci hanno trasformato in commentatori frenetici e suscettibili. Non è colpa dei social network, naturalmente. Non è che prima fossimo creature dall’intelligenza sempre brillante, o juke box programmati per pronunciare frasi memorabili, giudizi solidi, pensieri azzeccati o almeno originali, e per carità niente cazzeggio. È che prima si usava dare una sistematina all’universo nei vagoni ferroviari, nei circoli politici, parlando con il macellaio dietro il banco, negli spogliatoi della palestra, nel bagno ritoccando il rossetto, davanti alle macchinette del caffè. Ora si fa lo stesso mirando a un più vasto pubblico (finché dura, non è lontano il momento in cui nessuno leggerà più i pensierini altrui, vorrà solo “fare gruppo” stellinando gli amici per farsi stellinare a sua volta, e tutto ricomincerà da zero).

La smania passatista fa perfino rivalutare il “quarto d’ora di celebrità” che secondo Andy Warhol sarebbe spettato a chiunque nel Novecento. Il nostalgico è Roberto Cotroneo, guarda caso commentando una conversazione da treno. Intanto su Facebook pubblicizza lo Studio Editoriale Roberto Cotroneo, start up che legge a pagamento manoscritti inediti (e noi convinti che le start up fossero cose moderne). Su Twitter promuove il suo romanzo “Betty” (Fabio Fazio non lo invita, puntualizza, ma il romanzo vale) e ci fa secchi con il pensiero stupendo: “Questa nostra epoca impietosa e futile, fatta di un tempo anfibio che non scandisce più la vita e del quale ci sentiamo ospiti estranei…” Puntini forniti dall’autore (sembrava che Twitter avesse fatto sparire dalla circolazione il marchio di fabbrica dello scrittore pensoso; macché, eccoli di nuovo).

Noi per la verità ci stiamo benissimo, nel tempo anfibio, colpa sicuramente della nostra frivolezza e mancanza di sensibilità. Per dire: non ci siamo accorti dei mutamenti antropologici, né berlusconiani né giovanilistici. Basta guardare un vecchio film con Alberto Sordi – bugie, piccinerie, ipocrisie – per non credere ai primi. Bastano un po’ di letture per farsi beffe dei secondi. “Vivevamo con più gusto di quanto la presente generazione sembri capace. Ci divertivamo di più, di questo sono convinto. E spesso mi domando perché i giovani d’oggi sono così apatici, come se avessero la temperatura due o tre gradi più bassa del normale”. Michele Serra? Macché, Norman Douglas, nell’anno del signore 1933. 23 anni prima Virginia Woolf aveva annotato sul suo diario “la natura umana è cambiata”, sull’onda del flusso di coscienza e del modernismo. (Era cambiato solo il modo di scrivere, e siccome dava ai lettori meno soddisfazioni del fantastico realismo e dello stile indiretto libero di Gustave Flaubert, c’è stata anche una bella marcia indietro su cui non infieriamo).

La domanda che più spesso si sono sentiti fare i fratelli Coen, a proposito del loro ultimo film “Inside Llewyn Davis” (da noi uscirà a febbraio), è perché hanno scelto come protagonista uno sfigato a cui vanno tutte storte. Nostalgia per il tempo che fu e incapacità di riconoscere un “Libro di Giobbe” ambientato negli anni 60 vanno infatti tragicamente a braccetto. Questa non è la biografia di un musicista che dopo i tempi duri e la gavetta e le umiliazioni finalmente sale sul palco e si becca gli applausi. Qui gli applausi vanno a qualcun altro, che aprirà i tempi nuovi invece di chiudere i vecchi.

Non è facile capire quando succede, lo scatto somiglia al cambio di paradigma che secondo Thomas Kuhn governa l’avvicendarsi delle teorie scientifiche (la successiva non approfondisce la precedente: cambia radicalmente il nostro modo di vedere le cose). Però non è vietato provarci e fare scommesse, invece di puntare sui vecchi cavalli. Sennò si continua a combattere contro cose che non esistono più. Mettendo in croce i pubblicitari che usano “il corpo delle donne” per vendere auto, quando la pubblicità delle automobili da tempo inneggia alla famiglia, all’ecologia, alla sicurezza, alle prese elettriche che evitano la sosta al peccaminoso distributore di benzina. Le donne nude sono sparite perfino dalle copertine dei settimanali, a dire la verità le ultime le abbiamo sbirciate sulle copertine dei romanzi di Francesco Piccolo (“La separazione del maschio”) e Antonio Scurati (“Il padre infedele”).

A noi non spiace che la puntata di “MasterChef” dove i concorrenti cucinavano spaghetti al pomodoro fosse scritta meglio della puntata di “Masterpiece” dove i concorrenti visitavano mostre canine e mercati generali da voltare in racconto fantascientifico (abbiamo però notato che non le chiamano più “prove immersive”, un bel passo avanti verso l’italiano). I tre giudici invece si accapigliavano sul leggere o no quell’antisemita di Céline o quel maiale di Philip Roth o quel pedofilo di Vladimir Nabokov. In nome della letteratura in Italia si sono commessi tanti delitti – fuori Italia un po’ meno, ancora si scrivono e si leggono recensioni che prescindono dall’amicizia con l’autore e dal gusto delle professoresse – che un po’ di moratoria sarebbe benvenuta.

La mettiamo tra i desiderata per il 2014, sperando ci liberi dalle Mazzantini e dalle Mazzucco che, guarda caso nell’anno in cui Guido Barilla viene messo in croce perché considera l’Italia non ancora matura per due baffuti maschi con il grembiulino che in cucina si scambiano affettuosamente il fusillo, gareggiano con due romanzi con coppie gay. Risultano così infrante due regole del più elementare buon senso. Prima regola: la pubblicità non fa da apripista verso il nuovo mondo possibile ma si limita a cogliere l’aria del tempo. Controprova: la pubblicità dello smartphone Nokia Lumia non si vergogna di mostrare genitori che se le danno di santa ragione durante la recita scolastica dei figli (o il matrimonio degli amici, per scattare la foto migliore; aspettiamo quello con la partita di calcio). Seconda regola: la letteratura non nasce come doppione della cronaca, infiorettata di bello scrivere. Nacque, sostiene Nabokov, “quando un ragazzo entrò nella valle di Neanderthal gridando ‘al lupo al lupo…’ e non c’erano lupi dietro di lui”.

“Il 90 per cento è spazzatura”. La stima andrà tenuta presente quando anche da noi scoppierà il dibattito “snark vs smarm”. Lo anticipa Cesare Alemanni in un paio di articoli sul sito della rivista Studio. “Snark” sono le recensioni che quando è il caso pungono e attaccano, anche con ironia e anche con citazioni più rivelatrici di mille categorie critiche. “Smarm” è la scelta fatta da Isaac Fitzgerald, editor della nuova sezione libri di BuzzFeed: pubblicare solo recensioni positive, adottando la regola del coniglietto di Bambi (“se non puoi parlare bene di qualcuno non parlarne”). Barriera d’entrata da gruppo di supporto per serial killer: “Se non l’hai fatto non puoi capire”. Se non hai girato un film o scritto un romanzo, non puoi parlar male di quelli altrui: “Non sai la fatica che ci vuole, e come ci si sente, e bla bla bla”. Puoi parlarne bene invece, questo non è vietato (per favore non fatelo sapere ai registi dei cinepanettoni). Quindi sono ammesse solo affettuosità (oltre al coniglietto di Bambi, e non è uno scherzo, fanno da modello gli scodinzolanti corgi della regina Elisabetta).

Dave Eggers – grande fan delle carinerie culturali che prendono il nome da una brillantina indiana per capelli – non può saperlo. Ma in Italia siamo avanti, lo smarm esiste da almeno un decennio, mancava solo un nome per battezzarlo. Per lo snark serve un po’ più di attrezzatura. Eppure sarebbe bello goderci subito il 10 per cento per cui vale la pena di vivere, senza doverlo recuperare quando i posteri si lagneranno della loro epoca celebrando lo sfarzo culturale della nostra.


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